Non solo Gaza. Negli atenei la battaglia dei due mondi. E poi?

diAntonio Polito

Stiamo vivendo un'epoca di svolta, che ricorda il Sessantotto. È il sintomo di un'insofferenza verso l'Occidente

Quest’anno sarà ricordato nei libri di storia per le università occupate dal movimento pro Palestina che lotta contro le «complicità» di Biden e Meloni, o per un pontefice che per la prima volta si siede al G7 a fianco di Biden e Meloni? Per l’elezione al Parlamento europeo di un generale in servizio cui non piacciono gay e neri, o per quella di una militante accusata di violenze di piazza contro i «fasci»? In una parola: il mondo sta andando a sinistra o a destra?

C’è un giudizio unanime sul fatto che stiamo vivendo un’epoca di svolta, non fosse altro che per il ritorno della guerra al centro della scena mondiale. Una rupture, un cambio di fase. Per il movimento studentesco che scuote l’Occidente dalla Columbia University di New York fino a Sciences Po a Parigi è stato giustamente evocato (da Federico Rampini su questo giornale) un parallelo con il Sessantotto. Anche oggi un evento internazionale si fonde, come allora avvenne per il Vietnam, con un sentimento di ribellione giovanile verso il nostro stesso mondo: il capitalismo, il consumismo, il militarismo, il bigottismo.

Gaza c’entra sì, ma fino a un certo punto. Per scusarsi di un video in cui affermava che i «sionisti dovrebbero morire», assimilandoli ai «suprematisti bianchi» americani, Khymani James, uno dei leader del movimento alla Columbia, ha ammesso: «Ho detto cose sbagliate, ma ero ferito: un gruppo online mi aveva preso di mira perché sono visibilmente queer e nero». Una testimonianza autentica ed esplicita del fatto che tensioni razziali e diritti civili di casa propria si mescolano di nuovo alle vicende del resto del mondo; magari stavolta in salsa woke, la nuova spezia del disagio giovanile. Tutto ciò che sta accadendo nelle capitali della cultura europea e americana ci parla insomma più di noi stessi che del Medio Oriente.

L’esito di questa battaglia — possiamo perciò esserne certi — influenzerà profondamente gli anni a venire, il modo di pensare degli adulti di domani, il rapporto tra potere e masse. Ma in entrambi i sensi, perché a ogni azione corrisponde sempre una reazione. Il portato del Sessantotto fu non a caso, negli Usa come in Europa, una radicalizzazione estrema della lotta politica

La vicenda iniziata nel campus di Berkeley in California, dove un giovane di origini italiane incitò i suoi coetanei a «gettare il loro corpo nell’ingranaggio per incepparlo», non si concluse infatti con l’esplosione della società capitalista, evocata da Michelangelo Antonioni nello splendido finale di Zabriskie Point, ma con la vittoria del capo della destra americana di allora, Richard Nixon, alle elezioni presidenziali del novembre di quello stesso anno

Da allora la politica negli States non fu mai più quella di prima, il tempo in cui la battaglia si vinceva al centro, ma si fece sempre più ideologica e «partisan», quasi un duello antropologico; conducendo l’America lungo una teoria di presidenti repubblicani, il più importante dei quali fu Ronald Reagan, fino allo scontro finale Trump-Biden del prossimo novembre. E in Europa non andò «l’immaginazione al potere», come nella metafora di un altro capolavoro di Antonioni, la partita a tennis senza palle e racchette dei due mimi nel finale di Blow up. In Francia l’incendio del Sessantotto, cominciato con l’occupazione dell’università di Nanterre e propagatosi fino alla Sorbona e alle barricate di Parigi, proprio agli inizi di maggio, fu spento dalla «maggioranza silenziosa», un milione di francesi che scesero in piazza a sostegno di De Gaulle. Il quale tornò dal suo «esilio» a Baden Baden, dove si era messo sotto la protezione di un altro generale di destra, sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni un mese dopo: 387 seggi contro i 91 della sinistra

È vero, in Italia fu diverso. Il Sessantotto durò almeno dieci anni, dando vita anche ai grandi cambiamenti legislativi e alle riforme sociali degli anni Settanta. Ma la pulsione rivoluzionaria finì da noi anche più tragicamente che altrove: nel 1978, con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Tutto ciò non vuol dire che la storia si ripeta, o che i movimenti degli anni Venti del Duemila debbano per forza condurre a una vittoria delle destre negli anni Trenta, o peggio ancora che si debba rivivere una stagione di terrorismo di cui per fortuna non ci sono indizi. Ma di certo la battaglia in corso nelle nostre università, con annessi «tradimenti dei chierici» nei Senati accademici e mobilitazioni «antifa» nei circoli intellettuali, va letta come una pagina di una ben più ampia insofferenza per lo stato delle cose in Occidente; che se negli anni scorsi si è incanalata nel grande alveo del populismo, ora sembra produrre ambizioni di una sinistra nuova e più radicale. Oggi come allora, il riflusso è dietro l’angolo. Ma dipenderà tutto dalla politica: una cosa che non si fa solo nelle piazze.

27 aprile 2024 ( modifica il 27 aprile 2024 | 22:43)