Perché la protesta nei campus Usa è ai massimi dopo sette mesi di guerra?

Le centinaia di arresti nei campus occupati sembrano segnalare che questo movimento continua a guadagnare forza. Il calendario accademico, la controffensiva della comunità ebraica americana e le elezioni presidenziali, le tre possibili spiegazioni 

Perché adesso? Perché la protesta giovanile su Gaza in America sembra ai massimi proprio in questi giorni, nonostante la guerra in Medio Oriente duri ormai da sette mesi? Ci sono delle spiegazioni specifiche? Ho tre ipotesi, che possono integrarsi a vicenda.  

Una riguarda il calendario accademico, un’altra la controffensiva della comunità ebraica americana, una terza (forse la più importante) l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 5 novembre. 

L’intervento della polizia alla Columbia University di New York e in altri atenei per sgomberare i campus occupati, le centinaia di arresti, sembrano segnalare che questo movimento continua a guadagnare forza, anziché dare segno di stanchezza dopo mesi di mobilitazione. Questo appare vero soprattutto negli Stati Uniti, più che in Europa o perfino in Medio Oriente. 

A proposito del Medio Oriente si segnala questo paradosso, che il New York Times ha messo in prima pagina: in importanti paesi arabi o islamici tra cui Egitto Giordania e Marocco, le manifestazioni filo-palestinesi che si erano tenute all’inizio del conflitto sono ormai inesistenti. In buona parte perché vietate e represse dalle autorità locali, che hanno anche arrestato e processato dei manifestanti filo-palestinesi. 

La spiegazione riconduce a un’antica spaccatura fra il mondo arabo moderato e Hamas. Regimi moderati e conservatori come appunto quelli che governano Marocco Egitto e Giordania, considerano Hamas come il loro vero nemico, non Israele. Perciò quei governi inizialmente tollerarono manifestazioni di piazza per solidarietà con il popolo palestinese, poi hanno deciso di impedirle, per paura che siano un modo di rilanciare la propaganda dei Fratelli musulmani, una forza eversiva. Lo stesso vale naturalmente in Arabia saudita, il perno cruciale per ogni soluzione di pace in Medio Oriente: la monarchia saudita non ha mai ammesso manifestazioni di piazza filo-palestinesi. 

Il paradosso è che questo “silenzio della piazza araba” coincide con una “islamizzazione” di alcune correnti della protesta negli Stati Uniti. Questo fenomeno è diventato più visibile da quando la protesta studentesca si è allargata dai bastioni dell’accademia élitaria (Harvard Yale Columbia) verso università più popolari come il City College di New York. 

Nei “community college” è più forte la presenza di ragazzi di origini mediorientali, immigrati o figli d’immigrati. È normale vedere le proteste interrotte cinque volte al giorno da parte di gruppi di studenti e soprattutto studentesse velate, che rispettano le cinque preghiere islamiche. Alcuni osservatori esterni notano qualche contraddizione fra questa componente musulmana praticante o perfino fondamentalista, e l’influenza della sinistra radicale marxista nei campus, nonché dei movimenti Lgbtq. Altri si chiedono quale sarebbe la reazione se un’occupazione studentesca dei campus esibisse in modo visibile dei crocefissi e celebrasse delle messe durante le proteste. Tutto questo riconduce al tema che segnalavo all’inizio: perché l’agitazione giovanile negli Stati Uniti sembra crescere a sette mesi dall’inizio del conflitto. 

Il calendario accademico contribuisce a dare un senso di urgenza. Si avvicina il periodo finale in cui gli studenti dovrebbero dare gli esami, poi alcuni di loro avranno la cerimonia solenne della “graduation” o consegna del titolo di laurea. Per gli animatori della protesta questo equivale a un conto alla rovescia: soprattutto nelle università di élite, frequentate da ragazzi dei ceti medioalti, a fine primavera cominceranno lunghe vacanze estive e questo rischia di segnare la fine “stagionale” del movimento disperdendone il materiale umano. 

Per gli studenti non politicizzati, e per le loro famiglie che sostengono costi stratosferici (la valutazione media più recente che ho visto pubblicare è 90.000 dollari annui per atenei dell’Ivy League), vale il ragionamento contrario: è ai massimi l’esasperazione per un conflitto che rischia di rovinare l’anno accademico proprio nel momento decisivo. Questi giudizi basati sul calendario possono avere delle varianti. Per esempio, nelle università popolari come il City College di New York abbondano gli studenti-lavoratori che non andranno in vacanza. Inoltre c’è una componente esterna alla popolazione studentesca, molti hanno descritto la presenza di reti organizzate dell’estrema sinistra come Antifa. L’influenza di questi ultrà è visibile anche negli slogan, per esempio quelli risuonati contro la polizia di New York: “NYPD = KKK” equipara le forze dell’ordine all’organizzazione razzista del Ku Klux Klan. 

Alcune organizzazioni studentesche hanno accettato di negoziare con le autorità accademiche delle linee di demarcazione, per ammettere nei campus solo gli iscritti e tenere fuori gli esterni, ma non sempre queste regole vengono rispettate. 

Un secondo ingrediente tipicamente americano è la controffensiva della comunità ebraica, che in questo paese ha un peso superiore ad ogni altra parte dell’Occidente, o ad ogni altra parte del mondo dopo Israele. La presenza dei Jewish-American ad ogni livello – tra gli studenti e tra i mecenati che finanziano le università – comporta una sensibilità molto più acuta verso l’escalation dell’antisemitismo. La comunità ebraica americana, soprattutto sulle due coste e nel mondo della cultura, è storicamente progressista e vota democratico. Perciò si è sentita tradita e abbandonata dal “proprio mondo”, quando ha visto moltiplicarsi tra i giovani di sinistra i pronunciamenti apertamente antisemiti. Come sempre in una società pluralista qual è quella americana, bisogna evitare le semplificazioni: ci sono studenti ebrei anche nei cortei filo-palestinesi. Però nell’insieme la Jewish Community si sente sotto assedio e per la prima volta da decenni si sente tradita dalla propria parte politica. 

Tutto questo viene ingigantito dalla campagna elettorale. Il partito democratico è quello che ha più da perdere. Una parte degli ebrei-americani rischia di passare addirittura al partito repubblicano, per dissociarsi dalla sinistra radicale che ha un’influenza forte sul partito democratico e sull’Amministrazione Biden. Questo spiega perché sono dei governi locali di sinistra ad aver sentito il bisogno di sgomberare gli atenei con l’intervento della polizia (vedi New York). 

Forse è ancora più consistente il pericolo opposto: che una quota significativa di giovani si rifiutino di votare per “Joe il Genocida”, come questo presidente viene chiamato dai contestatori che gli rimproverano le forniture di armi e aiuti a Israele

Ecco un dato fornito dal sondaggio Harvard Youth Poll sui giovani sotto i trent’anni: in questa fascia di età il vantaggio di Biden su Trump si è assottigliato pericolosamente, dai 23 punti di distacco che aveva nel 2020 a soli 8 punti oggi. L’agitazione nei campus diventa quindi un problema politico nazionale e si trasforma in un allarme rosso per lo stato maggiore democratico. Per questa ragione il partito di Biden sta intensificando anche gli sforzi legali per escludere le candidature indipendenti in molti Stati Usa: il timore è che i giovani ostili a “Joe il Genocida” siano tentati di votare per candidati radicali come Robert Kennedy Junior, Cornel West, Jill Stein. 

Aggiungo una coda. Fin qui ho elencato le spiegazioni interne agli Stati Uniti, per cui il movimento filo-palestinese è ai massimi nonostante la guerra duri da sette mesi. Ho omesso, ma va aggiunta per forza, la ragione internazionale: l’America di Biden, più di qualsiasi altro attore esterno, ha un ruolo enorme nella guerra stessa, sia per il sostegno che dà a Israele sia per la mediazione che continua a tentare fra Netanyahu e Hamas. Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, è al suo settimo viaggio in Medio Oriente dall’inizio del conflitto. Gli studenti americani, più dei loro coetanei europei, pensano di poter influire sul corso degli eventi.

1 maggio 2024, 18:27 - modifica il 1 maggio 2024 | 18:33

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